martedì 31 maggio 2011

D Repubblica: Quanto guadagnano davvero i designer?

Laura Traldi scrive di "come guadagnano i designer" tra gli interventi quelli di: Kostantin Grcic, Arik Levy, Jasper Morrison e tra altri pareri e testimonianze di nomi noti ed emergenti anche la mia visione raccontata per esteso nel post precedente.

Quanto guadagnano davvero i designer? Essere famosi significa diventare ricchi? Se si progetta un oggetto oggi, quando verrà pagato? Meglio una padella o un divano di lusso? Di quali aziende ci si può fidare? Si lavora per passione o per soldi? Produzione o limited edition?





Testo Integrale di intervista a D. di cui sono state utilizzate alcune parti nell'articolo di Laura Traldi.





Chi è diventato ricco secondo te facendo il designer?

Splitterei la risposta in due parti. E' indubbio che Philippe Starck (dati dell'erario parigino alla mano) sia diventato "ricco", ma la mia impressione è che la gran parte del fatturato di uno studio come quello del designer francese venga da operazioni borderline architettura/design/immobiliare più che dalla mera vendita di prodotti.
Marc Newson (che infatti nel mondo design puro sembra quasi svanito) probabilmente ha guadagnato bene con i contratti Quantas, con la sua partecipazione in G-Star e progettando gli interni dell'Astrium, la navicella di Virgin Galactic. In questo caso tuttavia si tratta più di progettazione che di design, di un lavoro di "team" che inserisce la parte creativa in un percorso (spesso lungo anni e che magari non vedrà neppure mai la luce) riconoscendole un valore professionale: “Pago Marc Newson perchè credo che possa fare un certo lavoro meglio di altri per le sue capacità, caratteristiche, peculiarità.”
In questo caso il "guadagno" del designer è più simile a quello di un professionista "tradizionale", di un architetto, di un medico.
Professionalità uguale guadagno.
Probabilmente d’altro canto, i nomi (ormai) storici del design italiano ed internazionale alla lunga due lire le hanno messe da parte.
Credo purtroppo che lo debbano anche ad una iperproduzione dettata dal metodo di retribuzione dei designer: la "royalty", il modello di riconoscimento economico che attribuisce "salario" al designer premiandone esclusivamente i risultati commerciali.
La questione dunque si sposta in un ambito quantitativo.
Più oggetti disegno, richiesti da un'azienda o dal mercato, (posto che ne esista uno, personalmente oggi ne dubito...) più ottengo panieri da cui raccogliere briciole.
Credo sia stata, ad esempio, una logica usata per diversi anni dallo studio di Karim Rashid, associata anche ad una sovraesposizione d'immagine personale che rende "brand" il designer più dell'azienda.
In tutta onestà, tuttavia, non credo che alla lunga questa strategia paghi in termini di riscontro economico. Rashid stesso (pur avendo in un anno ottenuto che entrassero in produzione trentacinque suoi progetti) non ha i 1.000 dipendenti dello studio Foster (che li aveva come architetto non come hobbista di lusso del design) e più di una volta l'ho incrociato in aeroporto a viaggiare "economy" come i comuni mortali.
Lo split della risposta è dunque sul designer che viene riconosciuto come professionista ed incaricato di elaborare progetti complessi che dunque guadagna come professionista (Newson, Starck, Ora Ito, in passato Saarinen, Panton, Jacobsen, Colombo, in Italia direi Fabio Novembre, Gabriele Pezzini con Hermes) distinto dal designer che disegna oggetti per aziende moltiplicando un valore risibile di royalty per il maggior numero possibile di prodotti.
Su questo secondo aspetto ho un dubbio etico ed ancestrale:
Così intesa quella del "designer" può essere davvero una reale professione che genera un guadagno accettabile senza recar danno al mondo?
Mi spiego meglio: se le università del mondo sfornano (ipotesi plausibile) 3.000 laureati anno in "design" e tutti questi devono lavorare tutti per vivere, in questa accezione (quella tradizionale, quantitativa) devono arrivare ad avere a portfolio produzione almeno "N" oggetti su cui guadagnare.
Il che produce matematicamente e biecamente (3.000 x"N")/anno.
"N" inoltre non può essere un numero piccolo quindi il "terrore" dell'iper-produzione che satura il mercato con un arresto delle vendite ergo la "crisi" pare essere l’inevitabile conseguenza.
Pochi guadagnano, alcuni grazie a progetti "extra-design", alcuni grazie a direzioni artistiche nelle quali spendono un nome “brandizzato” a garanzia di una produzione, alcuni producendo grandi numeri grazie a dinamiche consolidate, tanti servono birre al pub pur avendo potenzialmente ottime idee.

Come ti guadagni la vita?

Io? Servo birre al pub! ;-) Scherzi a parte (ho fatto anche quello) ho una carriera accademica strana: partito come "Fisico" all'Università di Parma mi sono laureato poi in Architettura al Politecnico di Milano procedendo poi al dipartimento di Meccanica Strutturale dell’Università di Pavia e al CNR di Lecco a sviluppare la mia tesi.
Mi guadagno da vivere da 13 anni facendo l'architetto.
Interni, locali, architetture residenziali private, spazi borderline come studi di registrazione musicali, spazi in cui possa esprimere un modo contemporaneo di vivere o lavorare senza cedere ai condizionamenti di aziende o costruttori.
Il mio studio si occupa anche di immagine e comunicazione fin dai primi anni in cui pagavo l'affitto dello studio curando l'immagine di un famoso locale rock emiliano, il Fillmore, lavorando in radio, suonando in giro con la band per mezza Italia senza mai cedere a compromessi.
In 13 anni ho elaborato lavori apprezzati dalla stampa e pubblicati in tutto il mondo, ma la mia crescita professionale ha tuttora un andamento pacato e lineare con collaborazioni esterne legate a singoli progetti e sempre con la massima attenzione al futuro.
Il design rappresenta per me uno stimolo di ricerca e sperimentazione, un “bisogno”.
Per questo motivo lo coltivo in un network di relazioni che negli ultimi anni hanno coinvolto il CNR-IENI insieme all'amico fisico Stefano Besseghini - oggi AD di RSE (Ricerca sul sistema Energetico Nazionale) - , il settore biomedicale, il Polo dell'Innovazione della Valtellina che ha lanciato proprio al recente Fuorisalone lo spinoff NuDe di cui sono project leader, il Fraunhofer Institute e Tecnaro che hanno supportato la nostra ricerca sul legno liquido. Tutti progetti accomunati da un percorso che ha integrato ideazione, sviluppo, esperimenti, fallimenti, successi e risultati unici come quelli ottenuti in un vero "progetto manifesto": quello di GreenLantern.
Questo approccio funziona nell'ottica di una integrazione contemporanea di ricerca, sperimentazione su materiali e processi, stimoli creativi, intuizioni su nuove tipologie di oggetti, integrazioni di tecnologie provenienti da campi diversi, collaborazioni con aziende estranee al panorama design.
L'elettronica di GreenLantern, che si attiva con un sistema capacitivo, è stata a esempio progettata realizzata in Italia da Elettromeccanica Zuccoli di Abbadia Lariana, una azienda che lavora nel settore automotive.
E’ di immediata percezione che un progetto così sviluppato necessiti di anni per concretizzarsi.
Solo GreenLantern ne ha infatti impiegati tre per diventare realtà per il pubblico, senza trucchi né inganni.
Le “Major” italiane del design non hanno (da tempo) alcuna intenzione di investire realmente in sperimentazione.
Non solo non hanno reparti interni di ricerca e sviluppo aperti a settori estranei alle metodologie produttive che padroneggiano (e questo può anche essere giusto ed ovvio, richiederebbe risorse enormi) ma non sono neppure propense ad investire in risorse esterne per proiettarsi verso un futuro possibile.
Spesso mi è capitato di dialogare con grandi marchi per elaborare progetti da loro definiti (con mio leggero fastidio) "innovativi", ma cifre da 15.000, 20.000 € già risultano ai loro occhi inaccettabili.
Chi sbandiera investimenti di milioni di euro per l'elaborazione di un nuovo letto o di una nuova sedia sta platealmente mentendo e se così non fosse sarebbe forse ancora peggio.
"Certezza" e "risultati" sono richieste che non possono essere legittimate da un contratto che prevede una fase di ricerca e sperimentazione per cui "incertezza" e "possibili fallimenti" sono il fondamento stesso del percorso creativo e progettuale.
All’estero esistono eccezioni ( Established & Sons a esempio) che integrano la professionalità dei designer con competenze esterne (si pensi alla partnership con McLaren e John Barnard) e sviluppano progetti in modo complesso proiettando nel futuro concretamente gli oggetti e la prospettiva di vita quotidiana.
In architettura il committente rischia: si affida alla tua professionalità consegnandoti gli spazi in cui trascorrerà la propria vita o svolgerà il proprio lavoro.
Il guadagno si fonda dunque sul rapporto di fiducia e sul riconoscimento di una professionalità "a monte" del risultato.
Non mi è mai capitato che chiedessero la restituzione della parcella perché la casa da me progettata non fosse piaciuta ad amici e parenti o che mi proponessero il pagamento degli onorari per la progettazione di un locale con percentuali sui biglietti d’ingresso e le consumazioni. ;-)

Che consiglio daresti a un giovane che intraprende la professione per riuscire ad essere economicamente indipendente?

Quale professione?
A pensarci bene siamo di fronte ad un paradosso che potrebbe portare a definire quella del designer come una "non professione".
Non c’è possibilità di sostenere economicamente (fatta salva l'attuale dinamica progetto>produzione>vendita) il numero di potenziali professionisti sul mercato.
A meno di non ripiombare in quella iperproduzione di oggetti (inutili) che le aziende non vendono non generando fatturato e di conseguenza royalty in grado di pagare i designer.
Quindi il mio suggerimento è: non pensare di fare il designer.
Avere un approccio aperto verso altre discipline, dialogare, confondersi ed entrare in un rapporto osmotico con settori differenti, creare team e progetti di reale sperimentazione può essere una strada.
Ma per quanti? Poche decine, centinaia forse.
Non ci sono vite umane da salvare, non interessi territoriali o geopolitici (se non nelle mode transitorie dei designer esotici) e la soluzione mi sembra tanto immediata quanto drastica.
O fai il "musicista di liscio" ti omologhi ad un pubblico di nicchia, prendi la paga a "serata", obbedisci al capo dell'orchestra e suoni quello che il pubblico (ti dicono) vuole sentire per 320 serate all'anno e arrotondi dando lezioni di musica ai meno talentuosi studenti di musica, oppure fai un passo indietro, cancelli "designer" dal biglietto da visita e metti la tua creatività, la tua visione del modo di vivere il quotidiano, la tua interpretazione del tempo in cui vivi in qualcosa di cui sei soltanto una parte.
Jonathan Ive non è un bravo designer nel senso che l'iPhone o l'iMac sono "begli oggetti" che ben assolvono al binomio forma funzione, ma perchè è e sa essere un nodo essenziale di un team che coinvolge nello stesso istante e nello stesso percorso creativo tecnologia, forma, esigenze, aspirazioni, immaginazione, futuro, inganno, funzione, apparenza, ricerca espresse attraverso professionalità (e dunque persone) che imparano a parlare una lingua nuova in cui nessuno "comanda" ma ognuno è indispensabile alla riuscita di un progetto.
In sintesi occorrerebbe un passo indietro: via la definizione di designer (possibile che in 90 anni non si sia neppure trovata una traduzione in italiano? come se gli avvocati fossero ancora lawyer e i medici doctor...) e avanti con un nuovo modo di far cose, progettarle e renderle reali.
Quando e se ce n'è davvero necessità ed in funzione del quotidiano in cui realmente viviamo.
Altrimenti, per chi non se la sente di rinunciare alla "qualifica", orchestra di liscio o doppio lavoro sono alternative plausibili.
Per la cronaca, massimo rispetto per la tradizione musicale popolare italiana del liscio, ma dal 2011 mi aspetto che il segno lo lasci Beck.

Il sistema delle royalties è a vantaggio di chi?

Il sistema delle royalty è stato inventato dalle aziende affinché il designer assumesse parte dei rischi del progetto.
Attualmente un'azienda riconosce al designer (soprattutto se giovane) una cifra compresa tra il 2% e il 5% del "venduto" senza garantire nella maggior parte dei casi (escluse pochissime eccezioni) alcuna fee per il progetto nè per la fase di controllo e sviluppo esecutivo.
Se ci si pensa bene questo è assurdo nel momento in cui un’azienda crede nel progetto. Il rischio imprenditoriale dovrebbe essere esclusivamente ad appannaggio dell’imprenditore.
La royalty mette il designer in una posizione in cui non dovrebbe trovarsi mai quella della medesima ottica dell’imprenditore.
Inoltre, aldilà della mera percentuale matematica, è quel "sul venduto" la possibile fregatura.
Se nel catalogo di un’azienda un mio oggetto non viene adeguatamente promosso commercialmente, il rischio è quello di portarsi a casa una x% di quasi nulla.
E torniamo al punto di prima: iperdisegno, iperproduzione, stallo, crisi.
Considerando tuttavia che il designer viene spesso usato come uno “spunto” dall’azienda che poi evolve i progetti in piena autonomia escludendo spesso la figura del designer dal processo di produzione, sviluppo e messa sul mercato purtroppo il “potere contrattuale” della figura del designer è davvero molto risicato.
In un ottica nuova in cui il “nuovo designer” (non intendo lo styling di un divano o quattro linee per un tavolo che poi l'azienda rende prodotto indipendentemente) accompagnasse la ricerca e la sperimentazione su un nuovo prodotto in maniera complessa e in tempi più estesi potrebbe anche essere accettabile una royalty se la stessa si attestasse intorno al 20% del prezzo al pubblico di un prodotto.
Mi sembrerebbe anche ragionevole integrare la figura del "nuovo designer" nel team progettuale esteso, pagandolo indipendentemente dalle vendite e garantendogli tempistiche idonee alla elaborazione e sviluppo del progetto senza l'ansia del "se non vendo abbastanza ‘scopini’ non pago l'affitto di studio" e mettendolo quindi in una condizione, anche etica, di scegliere se cosa e come progettare.
Apple (e non sto parlando di una aziendina da nulla) presenta al massimo due progetti nuovi all'anno: il resto è ottimizzazione e restyling. Un’azienda di automotive non propone più di due nuovi modelli auto all'anno e al massimo un "concept" per ogni Salone (e parlo di giganti come BMW o Mercedes). Una buona band musicale produce un (buon) disco ogni 2-3 anni e ci lavora giorno e notte con musicisti, produttori e tecnici del suono. Artisti italiani che solo 3-4 anni fa dipingevano muri da "graffitari", legittimati perfino dalla mostra di Sgarbi al PAC, oggi lavorano su supporti diversi cercando un linguaggio tra il costruttivo e il distruttivo (come Rae Martini) o lavorando su editing e proiezioni digitali trasfigurando interi edifici in videomapping (come V3rbo) o dialogando con la musica e le forme d'uso (come Mr. Wany). Franco Battiato sta lavorando ad un'opera i cui protagonisti saranno ologrammi.
Dylan diceva "...the times, they are a changin' "
Mi si dirà che il design è diverso: “il design nasce dal dialogo tra il designer e l'imprenditore che, come insegnano i maestri crea oggetti pronti a sfidare il tempo”.
La mia interpretazione cambia semplicemente i tempi (sia quelli dei verbi che quelli cronologici).
Nel 2011, undici anni dopo il duemila, forse deve cambiare la dinamica, il metodo, la disciplina stessa e il modo di "pagare" la professionalità del progettista.
Certo è anche la professionalità del progettista che deve rendersi più attuale, forte, risolutiva aperta: ma è una sfida ancora da affrontare e per alcuni da vincere.
Oggi una disciplina come la psicologia (coetanea del design) è ancora credibile perché ha tagliato il cordone ombelicale con il passato e con i maestri, perché si è aperta allo stile di vita di una generazione che non è più quella di Freud. Oggi siamo disposti a dare 100 € a seduta ad uno psicologo se ci risolve i problemi realmente, non se tira fuori solo con sublime eleganza e stile riferimenti agli accademici schemi del passato.
Siamo disposti a pagare per nuove tecniche mediche che ci permettono di superare limiti che anni fa sembravano insuperabili, paghiamo per avere a disposizione strumenti di comunicazione inimmaginabili fino a 10 anni fa.
A mio avviso il progettista non dovrebbe cedere al ricatto della royalty tradizionale: occorrerebbe creare un rapporto di fiducia con l'azienda in cui le due parti si accordino per essere nodi equivalenti di un team più ampio assumendosi oneri ed onori in modo più equo ed equilibrato.
Ciò significa consentire al progetto di crescere e capire se dovrà vivere o morire non legando il compenso del progettista ad una scelta aziendale che, per essere attuale e coerente con i tempi, necessariamente dovrà essere successiva alla conclusione dello stesso.
Mi auguro che le aziende comprendano (anche stimolate dal periodo di crisi) questa necessità e incuriosite anche da modelli aziendali efficienti, evolvano le dinamiche interne permettendo al progettista di assumere il ruolo (e il riconoscimento economico e professionale) che gli compete.
L'alternativa è la solita interpretazione Schumpeteriana (come quella applicata alla scomparsa delle grandi aziende elettroniche tedesche negli anni '70) in cui qualcuno morirà e qualcuno di nuovo nascerà.
Se quella del progettista è davvero una professione, deve essere riconosciuta come tale a prescindere dal gradimento a posteriori.
Se vado da un medico che mi dice "hey Stanco, mi spiace davvero ma hai solo qualche mese di vita e non c’è nulla da fare" certamente non sono contento della sua diagnosi, ma la fattura la pago… altrimenti ci sarebbe un mare di medici in mezzo alla strada mentre quelli che conosco se la passano tutti decisamente bene.

sabato 21 maggio 2011

Intervista di Romolo Stanco su SKY a Tendenze Casa con Bianca Pezzi: GreenLantern, il legno liquido e NuDe: tra sperimentazione e design.



L'intervista di Bianca Pezzi su SKY, canale Leonardo, ha fatto emergere alcuni aspetti interessanti ed assolutamente inusuali del progetto NuDe.
Da un lato l'esigenza di ampliare il team che lavori su un progetto d'uso quotidiano con l'obiettivo di offrire al pubblico l'opportunità di scegliere oggetti realmente radicati nel XXI° secolo, dall'altro il confronto tra un modo tradizionale di fare design basato (come suggerito da Bianca nell'intervista citando Vico Magistretti) su un rapporto biunivoco tra designer ed imprenditore e un approccio assolutamente inusuale di integrazione di competenze differenti e varie in cui ricerca, creatività, sperimentazione, design, arte e marketing diventano nodi di una ragnatela indispensabile per uscire da una monotonia accademica anche (forse) causa della (citata) crisi del mercato design.

Che ne pensate?

venerdì 6 maggio 2011

"Quei genietti di NuDe capitanati da Romolo Stanco..."










"Di legno liquido parlano in tanti ma i soli che sono davvero riusciti a utilizzare questo derivato del legno che si inietta come una plastica sono i genietti di Nude capitanati da Romolo Stanco. Alla Fabbrica del Vapore."
Così scriveva Laura Traldi inviata al Fuorisalone sul blog D.Repubblica che quotidianamente ha raccontato volti, personaggi, installazioni, oggetti ed eventi colti al volo con l'iPhone.
Siamo fieri di GreenLantern ed i giudizi del pubblico sono stati entusiasmanti. "La miglior cosa vista tra Salone e Fuorisalone quest'anno" non è stata una frase isolata tra chi ha visitato lo spazio di NuDe alla Fabbrica del Vapore e frasi come queste, devo ammetterlo, riempiono d'orgoglio per i risultati che abbiamo ottenuto con GreenLantern.
Non "contro" qualcun altro ma a favore di un futuro in cui possano nascere nuovi oggetti con nuove motivazioni, in cui i team di progettazione si aprano alla ricerca e alla sperimentazione in cui, questo "futuro" cui tutti anelano, diventi solo un susseguirsi di istanti del presente.